Quando ho iniziato a fare questo mestiere esistevano due software per la grafica vettoriale più uno: Macromedia Freehand, Adobe Illustrator e Corel Draw.
Non ho fatto in tempo ad apprezzare il primo, ma qualcuno mi spiegò che poteva fare una cosa che il secondo non sapeva fare. Il terzo era per gli sfigati, gli improvvisati, gli incompetenti, i dodicenni e per la segnaletica negli uffici pubblici.
La rivoluzione informatica che dal 1980 è stata sotto i nostri occhi, è partita come un vero e proprio big bang, con miriadi di startup al silicone che cercavano visibilità e successo sgomitando a suon di codec proprietari e porte ultraveloci sempre più veloci e meno retrocompatibili. Poi è arrivata l’era delle macrocelle, gruppi colossali che pian piano hanno acquistato e incorporato le piccole software house. Il gigante bicefalo con le teste di Adobe e Autodesk ha fagocitato i vari Macromedia e Kinetix che avevano inventato capolavori come Freehand e 3Dstudio Max, a volte cambiandogli solo il nome, a volte cancellandoli per azzerare la concorrenza.
Parallelamente, e spesso trasversalmente, gli utenti si dividevano in parrocchie digitali.
Guai a dire ai parrocchiani di Photoshop che Gimp è un’alternativa valida e perfino open; guai a spingere un montatore di FinalCut a convertirsi a Avid, o viceversa, o a cercare di convincerne qualcuno che finalmente Première sia salito al rango di software di editing professionale. Chi usava Freehand storceva il naso davanti a Illustrator, e nel mondo della postproduzione, i compositor che usano il geniale Nuke gridano allo scandalo se qualcuno preferisce il versatile After Effects.
Nessun campo è immune all’effetto parrocchia: conosco professionisti legati a Powerpoint e pronti a difenderlo con i denti dai nemici di Keynote e dai terroristi di Prezi.
Anche lo storico divario Apple/Windows oscilla ogni momento tra seria discussione e folle partitismo. I professionisti del graphic design hanno avuto per anni dalla loro parte un motivo principe per scegliere la piattaforma della mela: le nuove release dei software Adobe uscivano sempre prima per loro. Per quasi vent’anni è stata l’unica scelta seria, per questo e per altri motivi. Oggi che le differenze tra un Photoshop versione Apple e uno versione Windows si sono quasi azzerate, e che le release escono in contemporanea, gli argomenti sono altri.
Certamente ogni professionista ha il diritto di scegliersi lo strumento che più soddisfa le sue necessità e anzi, verrebbe da dire che è proprio in questa scelta e nell’intera sua evoluzione nel tempo e nella carriera che può essere messo a fuoco il punto di contatto tra preparazione ed esperienza.
Ma perché allora tanta acrimonia? Perché lo sfottò in ufficio, i flame nei social, le battaglie sui blog? Ho conosciuto gente che si occupava di authoring da anni, e considerava Maestro la dannazione e DVD Studio Pro il regno dei cieli, ma solo con Encore ha trovato la pace dei sensi.
La sensazione è che, dietro la celata del professionismo, forti di motivazioni tecniche più o meno dimostrabili, i professionisti amino anzitutto contrapporsi in schieramenti per il puro gusto di farlo, di essere fazione, contro qualcuno prima di essere pro qualcosa, come se evitare lo scontro fosse segno di scarsa professionalità.
Non c’è niente da fare: in fondo, questo è sempre il paese dei guelfi e dei ghibellini, e la scelta del software con cui lavoriamo ogni giorno non può esimersi dall’essere motivo di lotta e contrapposizione esattamente come quando scegliamo la squadra, il quartiere, lo smartphone, il partito politico. Nikon contro Canon, Galaxy contro iPhone, Star Trek contro Star Wars, Twitter contro Facebook, Firefox contro Chrome… l’effetto parrocchia, in un paese come l’Italia, dilaga ma, aggiungo, forse dà anche sapore alle cose. Non c’è dialettica senza critica, e da qualunque parrocchia veniamo, nel nostro bagaglio c’è sempre spazio per la critica. O no?